Il brigantaggio non appartiene solo alla storia recente del Sud Italia. Anzi è vicenda antica, legata ai ritmi dissonanti della civiltà contadina. Ad aspetti congiunturali, ai soprusi e alle malversazioni dei diversi poteri – pubblici e privati – che si ripartivano il controllo del territorio. Come a temi più strutturali, ambientali, causati da lunghe flessioni climatiche, che comportarono l’impoverirsi delle risorse, con il conseguente aumento della violenza per accaparrarsi i beni necessari alla sopravvivenza, come singoli corsi d’acqua, campi coltivati, vigneti, strutture produttive ecc. Violenza per la quale, come spesso accade, furono i più deboli a pagare.
La prima volta che il brigantaggio si fa strada in maniera chiara nella nostra storia è il cinquantennio tra il 1330 e il 1380: periodo terribile non solo per il regno di Napoli ma per tutta l’Europa, marcato da cicliche carestie, da terribili tempeste epidemiche (la più celebre delle quali è quella conosciuta come peste nera del 1348) e da un generale clima di anarchia politica, che nel Mezzogiorno prese le forme dello scontro dinastico all’interno di casa d’Angiò.
In questo cinquantennio, bande di briganti impazzano dappertutto, dagli Abruzzi alla Calabria, guidate da personaggi dal profilo leggendario: sono i vari Caporal Mariotto, Pasquale Vurrello, Pasquale Ursillo, Margotta, Feulo Citrullo o Cola Mustone, ben raccontati, recentemente, da Giovanni Vitolo. Meno noto però è quello che accadde intorno a Napoli che, in questi anni, viene quasi assediata da gruppi di briganti che le impediscono comunicazioni e approvvigionamento. Gruppi che si nascondono soprattutto in quella sorta di vera e propria foresta di Sherwood nostrana che fu chiamata, proprio perché dava ospitalità a questi malfattori, la selva mala. E che altro non era se non la folta, foltissima foresta che circondava il Vesuvio, in modo particolare il suo versante costiero: allora, a differenza di oggi, pressoché privo di centri abitati.
Questi Robin Hood della selva mala controllavano tutte le strade che da Castellammare conducevano a Somma Vesuviana e a Napoli, strategiche per i contatti tra la parte meridionale del Regno e la capitale. I colpi che vi misero a segno furono numerosi e fecero scalpore, come riportano i documenti del tempo. Ne elencherò qualcuno. Nel 1335 fu ucciso il ciambellano Niccolò de Jamville. Nel 1341, fu rapito Giovanni Barrile, che, per incarico del re, si stava recando a Roma per assistere all’incoronazione poetica di Petrarca. Nel 1344, all’altezza di Resina, per due volte di seguito, fu rubata tutta l’argenteria appartenente alla regina Giovanna, in transito nella zona. Nel 1346 i briganti distrussero il ponte di Scafati e, nello stesso anno, papa Clemente VI deplora che “ladri, briganti e malandrini di ogni sorta spogliano e uccidono pellegrini, viaggiatori e abitanti del Regno”. Nel 1347, il funzionario della gabella del pesce, il gabellotto Giacomo Macedonio, segnala alla regina che non poteva versare niente nelle casse reali perché i briganti impedivano il trasporto del pesce dai centri della penisola Sorrentina. L’assenza di scrupolo e l’impunità con cui si muovevano le bande era tale che, nel 1379, come si legge, «non si potea andare fino a lo ponte de la Madalena et specialmente in fore fiumo che lla since tagliavano li huomini come cocozza et le femine aperte per ventre, ch’era una crudelitate». Mentre, nel 1383, i cardinali che si trovavano a Nocera al seguito di papa Urbano VI, a causa del terrore causato dai malandrini, furono obbligati a raggiungere Napoli per mare, non potendo attraversare la zona della Selva mala.
La monarchia come risolse il problema? Innanzitutto con la repressione, che fu feroce. Si previde, infatti, di procedere contro i briganti facendo intorno a loro terra bruciata, col distruggere le loro case e con la demolizione delle loro vigne e dei loro campi. Tattica cui si aggiunse la deportazione di mogli e figli nelle isole del Regno o al di fuori di esso, per disperdere l’humus sul quale cresceva la mala pianta del brigantaggio. Ma non servì. I colpi continuarono. Allora arrivò una nuova risposta, che prese le forme di una bella amnistia, che finì col cooptare i briganti nelle file dell’esercito regio, col risultato di trasformare i fuorilegge della selva mala in soldati che avrebbero dovuto servire lo Stato pro defensione Regni. E così fu. Il brigantaggio si interruppe. E, verosimilmente, i nostri Robin Hood andarono a fare danno altrove, ma adesso accompagnati da fanfare e riconoscimenti pubblici. Un destino che, per inciso, accosta i nostri briganti della selva mala a quanto leggenda vuole sia avvenuto al tanto più noto eroe di Sherwood…