di AMEDEO FENIELLO*
Un uomo entra nella sala. Inconsapevole di quanto sta per accadere. E’ grande. E’ forte. E’ potente. Lui è l’amico del re. Suo sodale. Suo consigliere. Suo socio in affari. Ha un nome che conoscono tutti, a Napoli come nel regno, ora, in questo fatidico inizio agosto 1487. Si chiama Francesco Coppola. Il più grande mercante che ci sia, tra il Tirreno e l’Adriatico. Mentre cammina, tocca le falde del suo vestito, intessuto del miglior broccato. La stoffa l’ha fatta arrivare direttamente da Firenze. E i migliori sarti glielo hanno provato addosso, fino allo sfinimento. E’ vecchio, sì. Ma si porta ancora egregiamente. E sta per condurre a termine un capolavoro: immaginato giorno per giorno, momento per momento da quando era sulle ginocchia di suo papà. Ogni volta che soprintendeva ad un carico di grano. Mentre stipulava un contratto per la vendita di allume. Quando si accordava con i banchieri toscani per far arrivare denaro per mettere in piedi nuove, grandi attività fuori e dentro la capitale. Sempre: ogni carico di frumento, ogni arma venduta, ogni remo delle sue barche conservavano, in sé, il profumo di quel sogno. Il sogno: che il figlio di nessuno, il figlio di mercante, potesse diventare parente del re. Non solo suo consigliere. No, lo avete capito: proprio parente, con la P maiuscola, di re Ferrante. Membro del suo entourage, della sua cerchia più stretta, di quelli che, il re, lo aiutano quando deve alzarsi dal letto o quando si deve coricare. Quelli che possono sussurrargli nell’orecchio l’ultima parola: la parola che può salvare le sorti di un mondo intero.
Il sogno di Francesco
Francesco il suo sogno se l’era costruito con pazienza. Centellinando ogni gesto e ogni sguardo. Sopportando, tanto spesso, gli sfottò dei vecchi nobili: meno ricchi di lui, ma volete mettere il prestigio? E Francesco, di rospi, ne aveva ingoiati una marea. Ma è da un po’ che è finita. Cosa avrebbe fatto il re Ferrante senza i suoi prestiti. Senza il suo denaro. Senza i suoi uomini. E Francesco lo sapeva: coi soldi si può comprare tutto, anche un titolo. E il titolo il re glielo concede: conte di Sarno. Lui: il mercante della zona più puzzolente della capitale, della Scalesia, stretta tra il mare del porto e gli scarichi cittadini, sordida e caotica, abitata da forestieri di ogni risma e soprattutto da gente della sua stessa razza, gente della Costa amalfitana, abituata a mangiare la colatura d’alici e a vivere di piccoli commerci, era salito di livello. Sagliuto, come si è detto per secoli a Napoli, dalla pezzenteria. Il villano rifatto, il mercante senza né arte né onori ora che è diventato conte si può permettere anche di dare suo figlio in sposo ad una nipote del re, a Maria Piccolomini. Era il sigillo su una vita spesa bene ad inseguire questo scopo. E c’erano tutti, ora in quella sala, a quel matrimonio. Tutti, che puntavano gli occhi su di lui. E che finalmente l’avrebbero dovuto accettare: il pezzente era diventato finalmente qualcuno.
La cerimonia insanguinata
Entra nella sala. Si siede. Si aspetta il re, per dare inizio alla cerimonia. Lo sguardo di Francesco va dall’uno all’altro. Saluta. Sorride un po’, ma deve tenere un contegno. Fra le labbra si ripassa le parole da dire. Le assapora, una per una. Ma il re sta tardando. Qualcosa non va. Le porte si chiudono. Entrano uomini armati. Francesco pensa: non sono qui per me. Invece lo prendono, lì per lì, nella sala grande di Castelnuovo. I soldati gli mettono le mani addosso. Lo afferrano, lo spingono. Stupore, rabbia. Le parole non gli escono dalla bocca, ma sembrano spuntargli direttamente dalla gola. C’è un errore. Uno sbaglio. Perché il re dovrebbe avercela con me? Mi ha scritto fino a ieri, fino all’altro ieri, chiamandomi Carissimo, dimostrandomi il suo affetto. Invece no: il figlio di mercante ha tradito. Ha tradito il suo re. Si è messo d’accordo con tanti altri, perfino col segretario di corte, Antonello Petrucci.
L’ultimo tradimento
Era vero. Aveva davvero tradito. Lui lo sapeva perché. Aveva avuto paura, che Ferrante, in un lampo, gli scippasse tutto il castello di ricchezze che si era creato. Le cose sue. La roba sua. E allora si era accordato con gli altri. Con tutti gli altri. Baroni, burocrati, nobili dei seggi. Ma era stato ingenuo. E ora pagava. E pagava di brutto. Altro che matrimonio: ora aveva capito. Il re aveva organizzato tutto. In segreto. Coi suoi complici. Il sogno, ridotto ad una congiura. Ora toglietemi il vestito. Niente più broccati. Buttatemi dentro una cella. Torturatemi, pure se sono così anziano. Pigliatevi tutto. Tutto quello che avevo costruito in anni di privazioni, di duro lavoro, di successi dissolti nell’acido di un attimo. Il sogno però, fatemelo sognare ancora una volta. Una sola piccola volta. Prima che il boia mi faccia salire sul patibolo. Fate diventare eterno, che anche io, una volta, sono sagliuto, e che dalle mani del re ho ricevuto la grazia.
*Storico del Medioevo