Politica interna
Primarie, l’offerta di Renzi. L’ipotesi è di farle slittare di un mese. Ma per la minoranza non è sufficiente. Un muro di rancore e incomunicabilità divide il mondo di Renzi da quello di D’Alema, Bersani, Speranza e degli altri leader dell’ala sinistra. La scissione è alle porte, forse è persino già avvenuta. Pressato dai «suoi» ministri, che a margine del Cdm si sono riuniti per discutere di come scongiurare il peggio, il segretario del Pd tenterà il tutto per tutto fino a domani. Ma l’intervista al Corriere in cui il leader apriva alla minoranza è stata vanificata da un fuorionda di Graziano Delrio, che ha mandato su tutte le furie «Matteo» e rafforzato i sospetti di Bersani e compagni: «Renzi non ha fatto nulla per scongiurare la scissione». La versione dei renziani in queste ore drammatiche è opposta. Raccontano di un segretario attaccato al telefono per mediare, smussare, proporre una soluzione che gli permetta di uscirne «con la coscienza libera». Ed ecco il «lodo» Renzi. Niente voto a giugno, congresso che parte subito e si chiude con le primarie il 17 o il 23 di maggio e convenzione nazionale che diventa conferenza programmatica. Le date però non sono quelle che la sinistra ha invocato, il timing dell’ex premier conferma íl «congresso cotto e mangiato» che ha acceso nell’animo di Bersani il fuoco della scissione. Un accordo sembra impossibile. Tanto più che, se il congresso slittasse all’autunno, Renzi dovrebbe ritirare le dimissioni. «Noi non ci muoviamo, il congresso non può concludersi prima di settembre – conferma la linea della rottura Speranza -. La minoranza pretende un congresso «vero», che segni una «svolta radicale» del Pd. «Renzi ammetta che tra la nostra gente la scissione c’è già stata», è il punto politico per i bersaniani. Resta una manciata di ore per salvare il Pd e nessuno sembra averne voglia. I ministri del Pd che dopo la riunione a Palazzo Chigi si fermano a parlare di scissione trasmettono un’immagine emblematica: quella di un governo che potrebbe essere investito da una rottura nel partito di maggioranza. E i messaggi in codice che arrivano dalla cerchia di Matteo Renzi, evocando di nuovo il pericolo di elezioni anticipate, tentano di piegare le resistenze. L’appello all’unità arrivato ieri da Renzi ha riscosso reazioni diffidenti. Ed è stato in qualche misura oscurato da alcune frasi del ministro Graziano Delrio, captate fuori onda durante un incontro pubblico: parole nelle quali, sfogandosi con l’interlocutore, imputava a Renzi di non avere fatto «neanche una telefonata» per scongiurare la scissione. E sosteneva che tra i renziani c’è chi ritiene di avere «più posti da distribuire» con l’uscita della minoranza. Almeno un effetto, però, Delrio l’ha ottenuto: una telefonata di Renzi a Emiliano. Forse il colloquio non ha sbloccato la situazione, ma esiste un canale di dialogo. .
Duello Grillo-Lombardi sullo stadio Tor di Valle. La Soprintendenza ferma il progetto. Scontro M5S sull’impianto. Grillo a Roma per spingere il sì. Altolà dei Beni Culturali: vincoli a Tor di Valle. Vietato costruire edifici più alti delle tribune. Il Ministero dei Beni culturali ha inviato il parere che è già sul tavolo del Gabinetto del Sindaco e alla Conferenza dei servizi: stadio e grattacieli a Tor di Valle non si possono fare. Al di là dei litigi e dei ripensamenti della maggioranza a 5 Stelle, questo atto potrebbe scrivere la parola fine. Anche perché questo verdetto della Soprintendenza Archeologica, Belle Arti e Paesaggio per il Comune in Roma raccoglie le considerazioni di archeologi, architetti e paesaggisti. Come mai c’è questa bocciatura che influenza pesantemente il giudizio della Conferenza dei servizi? L’ippodromo ha una significativa valenza architettonica che va tutelata e salvaguardata. Nulla può essere costruito vicino che ne ostacoli la visuale. Nulla che sia più alto delle tribune dell’impianto dove un tempo gli appassionati di trotto seguivano le corse. Rischia di essere la sentenza finale che affonda il progetto dello stadio, con annessi grattacieli, perché è stata redatta dalla Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio del Comune di Roma ed è finita tra gli atti della Conferenza dei servizi regionali che deve pronunciarsi sul progetto. Se fosse per Beppe Grillo, Roberta Lombardi avrebbe i giorni contati dentro il Movimento 5 Stelle. Ma non è così, per due ragioni. Perché la deputata romana ortodossa ha un nucleo di fedelissimi e soprattutto perché le sue critiche si rivelano spesso fondate. Sembra íl caso del nuovo discusso stadio di Tor di Valle. A poche ore dal messaggio Facebook della Lombardi, infatti, spunta fuori un documento importante. Lo ha scritto l’architetto Margherita Eichberg, soprintendente statale per l’archeologia Belle Arti e Paesaggio per il Comune di Roma, e inviato a Roma Capitale il 15 febbraio. Negli ultimi giorni la stessa sindaca era stata costretta a frenare, di fronte a chi dava per già raggiunto l’accordo. Anche perché i consiglieri contrari allo stadio non sono pochi. E ad andare avanti senza mettere paletti consistenti, si rischia di sbattere, sempre che la Soprintendenza non blocchi tutto. E così ieri la Lombardi entra a gamba tesa da Facebook. Dice sì allo stadio, ma no a questo progetto, che è «una grande colata di cemento» in una zona «a fortissimo rischio idrogeologico». Così viene preso dal blog, che interviene subito: «Sullo stadio della Roma decidono la giunta e i consiglieri. I parlamentari pensino al loro lavoro».
Politica estera
Trump voleva mobilitare la guardia nazionale «In centomila nella caccia ai clandestini». Donald Trump prova a rilanciarsi tornando sulle piste della campagna elettorale. Ieri la Boeing lo ha invitato alla presentazione della nuova versione del Dremliner 787, costruito nello stabilimento della South Carolina. Per il presidente è stata l’occasione per una performance «movimentista», senza l’ingombro dei giornalisti e delle loro domande. Il governo è in chiara difficoltà: le rivelazioni sul rapporto tra Michael Flynn e l’ambasciatore russo a Washington sono una mina vagante. Il Congresso è in piena agitazione. Anche diversi parlamentari repubblicani chiedono una commissione di inchiesta che arrivi al nucleo politicamente radioattivo: il rapporto tra Donald Trump e Vladimir Putin, o comunque tra la nuova amministrazione e il Cremlino. Il clima sempre più tossico deve aver indotto Bob Harward, 61 anni, vice ammiraglio della Marina in pensione, stimato in modo trasversale, a rifiutare l’incarico di Consigliere per la sicurezza nazionale, lasciato libero da Flynn. Trump ha fatto finta di non vedere e ha fatto sapere su Twitter di stare vagliando la candidatura del generale Keith Kellogg, che già sostituisce a interim Flynn, e di altre tre figure non specificate. Ma la confusione continua ad aumentare. Uno dei buchi neri è proprio l’apparato per la protezione del territorio. L’agenzia Associated Press rivela di aver ottenuto un documento scritto dal segretario alla Sicurezza interna, John Kelly, in cui si prefigura l’ipotesi di mobilitare fino a 100mila agenti della Guardia nazionale per catturare gli immigrati irregolari. «Al cento per cento non è vero. E irresponsabile dirlo». La smentita secca arriva dal portavoce della Casa Bianca, Sean Spicer, mentre accompagna Donald Trump sull’Air Force One diretto a una fabbrica della Boeing in South Carolina. L’Associated Press però ribadisce: quel piano esiste, è un documento di 11 pagine che pianifica una «militarizzazione senza precedenti ai confini col Messico», con i soldati impegnati in California, Arizona, Texas e New Mexico. Datato 25 gennaio, per due settimane è circolato nel Department of Homeland Security, che dirige anche le polizie di frontiera. La smentita di Spicer chiude il “caso”? Almeno per ora, vista l’imprevedibilità di questa Amministrazione. Ma non sarebbe la prima volta che la Guardia Nazionale o altri reparti militari vengono mobilitati per funzioni di ordine pubblico. Spesso al servizio di un fine “progressista”: per esempio per difendere i diritti civili dei neri nel profondo Sud quando governatori, sindaci e polizie locali li calpestavano.
Blair esorta alla ribellione contro Brexit. Premier dirompente, poi uomo d’affari nel giro lucroso delle consulenze: ora lancia un movimento per fermare la Brexit: «Siamo in tempo». Un atto di sfida a Corbyn che può rifondare il partito. La resurrezione? Tony Blair è stato un grande leader. Nel bene e nel male. Nel bene quando ha trascinato i laburisti nel campo del riformismo, fuori dalle secche della demagogia. Nel male quando ha fatto da tappetino a Washington nella guerra in Iraq cedendo alla suggestione di un intervento che è stato anche causa delle distruzioni di oggi e quando si è innamorato di un modernismo incapace di frenare le scorribande finanziarie e bancarie all’origine della crisi economica. Ha prima unito e creato speranze all’indomani della stagione della Lady di ferro Margaret Thatcher, poi ha diviso, cadendo nel lucroso mondo delle consulenze a fior di milioni per governi e regimi di ogni specie. Resta pur sempre un personaggio, per storia e acume, le cui mosse vanno pesate con attenzione. È già capitato di ascoltare suoi sermoni, quasi tutti caduti nel vuoto. Quello di ieri nella sede di Bloomberg segnala qualcosa di nuovo perché dopo tanto tempo di autoproclamata marginalità al dibattito politico con l’insistenza di non volere rientrare nell’arena, Tony Blair mette sul piatto la sua ingombrante e divisiva presenza. II passaggio è chiaro: «Dobbiamo costruire un movimento che sia trasversale e sappia ideare nuove forme di comunicazione». «Non è tempo per la ritirata, l’indifferenza, la disperazione, è l’ora di solleversi per difendere ciò in cui crediamo». La strada che stiamo imboccando- ha detto Tony Blair – non è più quella di una hard Brexit, ma peggio, di una Brexit ad ogni costo il nostro compito è ora di svelare quale è il prezzo di una scelta del genere e trovare una via per evitare questa corsa verso il precipizio». La tesi dell’ex primo ministro è semplice la gente ha votato senza conoscere i termini reali del distacco anglo-europeo.
Economia e finanza
Furbetti del cartellino, arriva la stretta Scatta il licenziamento in trenta giorni. Sospensione entro 48 ore, licenziamento entro un mese. Il Consiglio dei ministri ha approvato il decreto correttivo alla riforma Madia, con il licenziamento lampo dei furbetti del cartellino e la stretta sui ‘malati” post-weekend. Tempi duri per chi timbra e va a fare la spesa o in palestra, ma anche per chi si ammala sempre di venerdì o di lunedì. Stesse sanzioni e rischio di licenziamento anche per i superiori che coprono gli assenteisti, o che fanno finta di niente. Inoltre il decreto amplia i casi di licenziamento disciplinare: oltre alle gravi e ripetute violazioni degli obblighi stabiliti dalla legge per i lavoratori c’è anche il caso di insufficiente rendimento rilevato dalla reiterata valutazione negativa della performance del dipendente nell’arco dell’ultimo triennio». Si demanda invece ai contratti collettivi, dato lo spirito del decreto che mette al centro la contrattazione e ridà slancio al ruolo dei sindacati nella Pubblica Amministrazione, la regolamentazione delle ipotesi di ripetute e anomale assenze del servizio in continuità con le giornate festive e di riposo settimanale, nonché con riferimento ai casi di anomale assenze collettive in determinati periodi nei quali è necessario assicurare continuità». Ieri il consiglio dei ministri ha semplicemente adottato quello che tecnicamente si chiama un «correttivo» del testo, per andare proprio incontro ad alcune delle richieste arrivate dai governatori per dare il loro disco verde alla normativa sul licenziamento dei furbetti. L’impianto, dunque, nella sostanza rimane immutato. Il procedimento disciplinare dovrà partire immediatamente, e dovrà concludersi eventualmente non il licenziamento entro 30 giorni. Se il dirigente responsabile del dipendente “furbetto” si gira dall’altra parte, rischia di essere messo alla porta anche lui. Nel decreto bis viene introdotto «l’obbligo di comunicazione dei provvedimenti disciplinari all’Ispettorato per la funzione pubblica entro 20 giorni dall’adozione degli stessi». La novità ha l’obiettivo, spiega il governo, di «consentire il monitoraggio sull’attuazione della riforma, anche per adottare ogni possibile strumento che ne garantisca la piena efficacia». Il governo conferma anche le norme sulla chiusura delle partecipate degli enti locali. Quelle che fatturano meno di un milione andranno liquidate. Slittano invece dal 23 marzo al 30 giugno i piani di razionalizzazione.
Banche, sul mercato pronti 70 miliardi di Npl – Banche italiane pronte a vendere 70 miliardi di Npl. Borse frenate dai titoli del credito: Piazza Affari -0,4%. Le banche italiane stringono sul dossier «non performing loans»: i principali istituti sono infatti pronti a cedere 70,4 miliardi di Npl lordi: oltre il 20% dello stock totale dei crediti deteriorati lordi. Entro fine mese le banche europee dovranno presentare in Bce i piani dettagliati. Intanto i titoli del credito frenano le Borse europee. UniCredit apre la fila con 17 miliardi, poi Mps, Rev ed ex popolari venete: il 2017 può essere l’anno di svolta. Il veicolo con le sofferenze delle good banks partitrà con le cessioni entro la fine di giugno. La Commissione europea, l’Ocse, il ministro Piercarlo Padoan, il presidente dell’Eba Andrea Enria, il vice governatore di Bankitalia Fabio Panetta, l’agenzia Fitch. Neanche si fossero messi d’accordo, uno dopo l’altro in settimana si sono pronunciati tutti sullo stesso tema i non performing loans, che restano uno degli ostacoli per la ripresa in Europa e pertanto vanno smaltiti più rapidamente. Soprattutto in Italia, che sconta il poco invidiabile primato del maggiore stock europeo: 86,9 miliardi le sofferenze nette al 31 dicembre secondo l’Abi, circa un quarto del totale del Vecchio continente secondo l’Eba. II sistema bancario italiano è ancora «vulnerabile» e ha bisogno con «urgenza» di essere messo in sicurezza, ha ammonito l’Ocse nell’Economic Survey presentata martedì. E il giorno dopo Fitch ha rincarato la dose confermando l’outlook negativo sul settore proprio in virtù delle difficolta a «mitigare il crescente peso dei crediti deteriorati sul capitale». Sì, perché dismettere vuol dire spesso svalutare e rischiare di scontare una perdita a livello di patrimonio: quanto basta per spingere finora le banche a muoversi con cautela. Si allungano i tempi del via libera al piano. Saranno salvaguardati i risparmiatori frodati. Con lo schema attuale del «burden sharing» gli speculatori che sono entrati in Mps possono comunque guadagnare. Più proseguono i contatti fra Roma e Bruxelles, più diventa chiaro che il via libera europeo alla nazionalizzazione del Monte dei Paschi non sarà un pranzo di gala. Né, a quanto pare, arriverà necessariamente entro il mese prossimo come i negoziatori si erano ripromessi a dicembre scorso. Resta infatti molto da discutere, anche perché la Commissione europea è orientata a chiedere modifiche al dispositivo proposto dal governo all’intervento pubblico nella banca di Siena. A Bruxelles si teme che si finisca per premiare così con risorse dei contribuenti quei grandi investitori che, all’ultimo momento, hanno comprato i titoli di Monte Paschi sperando proprio in questa soluzione.