Politica interna
Raggi otto ore dai pm. E scoppia il caso polizza. Doveva spiegare una lunga serie di fatti: se abbia convinto si capirà a breve. Intanto nel corso dell’interrogatorio che si è svolto nella struttura della polizia alla periferia della città per garantirle massima riservatezza, Virginia Raggi ha dovuto rispondere a nuovi interrogativi su una polizza vita da trentamila euro che Salvatore Romeo le ha intestato nel gennaio 2016, sei mesi prima dell’elezione in Campidoglio. «Non ne sapevo nulla», dichiara in nottata. Ulteriori dubbi che arrivano proprio mentre la chat rivela nuovi dettagli sul rapporto fra Romeo, la sindaca e Raffaele Marra e sul ruolo di quest’ultimo nel disegnare la nuova macrostruttura del Campidoglio. A prima vista la polizza si tratterebbe un regalo che avrebbe dato vita a un corrispettivo: quella promozione di Romeo da semplice funzionario capitolino a dirigente da 100 mila euro l’anno. Una polizza che precede appunto la campagna elettorale per le Comunali e sulla quale ora i magistrati vogliono condurre approfondimenti.
Durante la pausa dell’interrogatorio con i pm, in cui Virginia Raggi ha sentito la necessità di fare una telefonata, di mandare messaggi. Magari non ha parlato direttamente con Grillo, però ha voluto informare i vertici del movimento che poteva spiegare tutto. Sempre più nervosa e fragile, senza il sostegno dei suoi due fedelissimi la Raggi ogni volta che la sedia su cui sta seduta perde un pezzo, ormai reagisce in un solo modo: chiede aiuto a Grillo, Casaleggio e dintorni, ai vertici, si giustifica, spiega, assicura. E sempre a Grillo, il Fondatore e Garante, che si appellano gli «ortodossi» del M5S, per chiedere un intervento «a tutela dell’immagine del Movimento». Mentre la Raggi è chiusa in una sede segreta per l’interrogatorio fiume da parte dei pm terminato poco dopo le 22,30, sulla promozione del fratello Renato del suo braccio destro, Raffaele Marra, e anche sulla strana operazione assicurativa, fuori esplode la rivolta dei «duri e puri» contro di lei. Sarebbe l’ala che fa capo a Roberto Fico e che comprende la sua acerrima nemica Roberta Lombardi, a chiedere la sua testa. Quella convinta che già dopo l’arresto di Marra per corruzione, si sarebbe dovuto arrivare alle dimissioni.
Renzi: sì al congresso ma chi perde si adegui. Una scissione? «Non la capirebbe nessuno». Matteo Renzi getta acqua sul fuoco delle polemiche interne divampate in questi giorni. E in uno slancio di disponibilità apre al congresso come mai aveva fatto dal suo ritorno sulla scena. Tutto è in movimento mentre la commissione Affari costituzionali della Camera decide di avviare la discussione della riforma della legge elettorale solo dopo la pubblicazione delle motivazioni della Consulta sull’Italicum, attese per metà mese, comunque entro il 25. «Comunque vadano le primarie o il congresso l’importante è che il giorno dopo si rispetti chi ha vinto, altrimenti è l’anarchia», è il messaggio che lancia l’ex premier, che frena anche sulla corsa alle urne, dopo l’accelerazione di questi giorni. «Non so in che giorno si voterà, non tocca a me deciderlo, ma qualunque sia quel giorno è fondamentale che le forze politiche parlino delle esigenze delle persone, altrimenti le elezioni sembreranno solo una caccia alle poltrone». Intanto Bersani rilancia il suo sogno ulivista. «Serve una pluralità che vada dalla sinistra radicale al civismo-dice l’ex segretario-l’Ulivo che ho in mente non è un revival del passato, è un Ulivo 4.0». La linea Maginot di Bersani si è spostata, dalle «primarie subito, se no scissione» è diventata quella del «se si vota a giugno noi usciamo prima»: perché a giugno a suo dire si deve celebrare il congresso Pd e non le politiche. Neanche dopo lo spariglio del segretario i giochi si riaprono: uno spariglio che tradotto vuol dire: primarie di coalizione se si vota a giugno, se invece si va al 2018, congresso anticipato di tre mesi, a ottobre si faranno i gazebo per votare il segretario. Il senatore del Pd, Vannino Chiti, in una intervista a La Stampa sostiene che «la priorità per il nostro Paese non è fare le elezioni anticipate. Il governo deve affrontare le emergenze, al lavoro al terremoto, non può essere sfiduciato dalla direzione Pd. Il Parlamento deve scrivere una buona legge elettorale e il Pd deve prima discutere con quali programmi e alleanze presentarsi alle urne». «La scissione sarebbe una catastrofe, la certificazione del fallimento di una intera classe dirigente del centrosinistra, giovani e meno giovani. Due mezzi ulivi non fanno una pianta». Per Stefano Folli, su Repubblica, “a Grande spinta a favore delle elezioni anticipate in giugno potrebbe essersi già esaurita. Troppi ostacoli, troppe indicazioni contrarie. Le resistenze di un certo mondo politico, economico, istituzionale si sono rivelate — com’era prevedibile — più coriacee di quanta qualcuno avesse calcolato. Matteo Renzi le elezioni le voleva con determinazione e certo le vorrebbe tuttora. Ma il realismo è la dote del buon politico, specie quando è isolato. Ecco perché l’ex premier non intende operare forzature e, sia pure di malavoglia, si dice disponibile a concludere una legislatura nella quale non crede più, a patto che la decisione sia condivisa con gli altri attori dello psicodramma, da Gentiloni a Franceschini: ossia, il premier che assicura all’Italia quel tanto di stabilità che è indispensabile e l’uomo-chiave dei destini del Pd, attento ai passi falsi in tema di legge elettorale”.
Politica estera
Tra Gentiloni e Serraj il patto anti-immigrati. L’Italia firma un memorandum di tre anni con la Libia per bloccare le partenze dei migranti attraverso il Canale di Sicilia. L’accordo arriva al termine di una due giorni europea del premier libico Fayez al Serraj, che in serata a sorpresa vola a Roma per incontrare il capo del governo Paolo Gentiloni. L’intesa sarà benedetta oggi dai leader della Ue che si ritroveranno a Malta proprio per cercare di chiudere la rotta mediterranea e varare un piano che ingloberà, finanzierà ma a sua volta si farà guidare dall’accordo siglato a Palazzo Chigi. L’accordo, che ha validità triennale e sarà rinnovato alla scadenza, arriva in porto grazie alla mediazione di Minniti e in virtù dell’impegno del nostro Paese a collaborare con gli Stati attraversati dalle migrazioni, a partire dal nuovo Fondo per l’Africa. Otto articoli per mettere nero su bianco l’impegno di Tripoli a controllare le sue coste e quello italiano ad aiutare il partner nel monitoraggio delle frontiere Sud, quelle da cui entrano i migranti africani che sognano di raggiungere l’Europa. Tanto per cominciare c’è il lavoro di squadra nel Mediterraneo, da dove proviene il 90% dei migranti e dove finora si è vista in campo solo l’operazione Sophia. L’Italia, si legge nel testo, garantisce sostegno alle istituzioni di sicurezza e alle regioni colpite dal fenomeno dell’immigrazione illegale. Vale a dire training, equipaggiamento, assistenza alla guardia costiera libica, droni per il controllo dei confini e la restituzione delle 12 motovedette che hanno già effettuato la manutenzione ma anche supporto per energie rinnovabili, infrastrutture, sanità, trasporti, sviluppo delle risorse umane. In una intervista rilasciata al Corriere della Sera alla domanda se Serrai è l’uomo gisto ci affidare la nostra politica per il controllo dei migranti Federica Mogherini risponde: «Non sta a noi scegliere il leader libico. Il nostro compito non è interferire ma sostenere un processo in cui i libici riescano a unirsi e governare il Paese. La Libia è profondamente divisa. Né Tripoli né Tobruk possono governare da soli. Ma è un Paese strategico, che può e deve restare unito. Noi sosteniamo le scelte sancite dall’Onu e la legalità internazionale».
Trump apre un fronte ostile con L’Iran. La prima vera escalation di Trump è contro l’Iran, colpevole di un test con un missile balistico non in grado, almeno secondo Teheran, di portare testate nucleari. «Siete avvisati», ha detto agli iraniani Michael Flynn, il consigliere della Sicurezza nazionale che capeggia i falchi insieme al ministro della Difesa James Mattis. Teheran e Washington sono già a una guerra di parole in cui il presidente Rohani ha definito quello americano «un principiante della politica». Per Trump l’accordo sul nucleare raggiunto da Obama dovrebbe essere stracciato. Non piace a Israele e ai sauditi, i due storici alleati Usa in Medio Oriente, soprattutto ora che l’Europa è tornata ad acquistare petrolio iraniano a ritmi mai visti dalla fine delle sanzioni. Non c’è alcun dubbio dove si schiera l’America nell’epocale conflitto sciiti-sunniti. Troppi gli interessi che legano Washington a Riad. «Siamo d’accordo con Trump», ha detto alla Bbc il ministro del petrolio saudita Al Falih: «Negli Usa abbiamo miliardi di dollari nella raffinazione, nelle pipeline, nella fmanza». Trump ha fatto la sua scelta. Prendere dal mondo musulmano quel che gli serve, anche se non è moderato: Arabia Saudita e monarchie del Golfo applicano un’interpretazione ultra-conservatrice della religione ma portano soldi. Colpire invece i Paesi islamici che non si piegano agli Usa.
Come sottolina Mario Platero sul Sole 24 Ore nella politica estera amerciana, anche nei confronti dell’Europa, non è la policy a prevalere, non la scelta migliore, la strategia studiata dagli esperti, calibrata in varie simulazioni oppure il dialogo con gli alleati, l’utilizzo della diplomazia. Nulla di tutto questo. Vince subito l’istinto dello slogan semplice, del pensiero intuitivo: qual è la miglior discriminante per rifare “America Great”? Semplice, occorre passare per “America First”. Dobbiamo abituarci e prendere questi slogan come un postulato: occorre mettere l’interesse della potenza americana davanti a tutto. Non è un cambiamento da poco. Il grande vanto americano di una delle dichiarazioni di indipendenza più poetiche e ispirate nella storia della politica o la tradizione di essere stata l’unica potenza pervasa da quell”‘eccezionalismo” che poggia sull’altruismo, con la Presidenza Trump sono spariti”.
Economia e Finanza
Padoan: la correzione dello 0,2% prima del Def – «Correzione da 0,2%, è indispensabile». L’Italia metterà mano all’aggiustamento da 34 miliardi perché è «indispensabile» per evitare una procedura d’infrazione che sarebbe «estremamente allarmante». Intervenendo ieri pomeriggio al question time in Senato sulla situazione dei nostri conti pubblici il ministro dell’Economia rompe gli indugi e chiarisce che la correzione si farà, con un programma in più tappe che si chiuderà «al più tardi entro aprile» ma che «molto probabilmente» vedrà alcune misure anche prima, già dalle prossime settimane. Quello proposto da Padoan ieri a Palazzo Madama non può essere ovviamente etichettato come un cambio di rotta rispetto alla lettera inviata a Bruxelles solo poche ore prima; a cambiare,però è il “tono” e soprattutto il tasso di precisione sulla disponibilità italiana e in particolare sui tempi stretti in cui è destinata a tradursi in pratica. L’obiettivo è quello di contrastare una certa delusione per la risposta scritta del governo trapelata subito dagli ambienti della commissione Ue e di respingere la prospettiva di una procedura d’infrazione. Un’ipotesi di questo tipo, chiarisce in Parlamento il ministro, «comporterebbe cessioni di sovranità e costi aggiuntivi per il Paese a seguito del probabile aumento dei tassi di interesse». Poche ore prima, nella conferenza stampa dopo il consiglio dei ministri dedicata al decreto sul terremoto, il premier Paolo Gentiloni aveva detto che l’Italia «non è in procedura d’infrazione, e abbiamo deciso da sempre di rispettare le regole ma senza misure con effetto depressivo». In mattinata fonti di Bruxelles hanno confermato che la lettera giunta dall’Italia mercoledì sera in risposta alla richiesta di manovra correttiva da 3,4 miliardi non era convincente: «Ci saremmo aspettati una risposta più dettagliata», tanto sui tempi quanto sui contenuti dell’intervento. Una delusione arrivata forte e chiara anche al Tesoro, con il ministro Padoan che per evitare che la situazione precipitasse al question time in Senato è stato più esplicito sulle intenzioni del governo. Mossa che ha favorito l’intervento in serata del commissario Pierre Moscovici, che ha riaperto i canali del negoziato con frasi concilianti: «L’obiettivo è evitare procedure», ha rassicurato il responsabile francese, storicamente annoverato tra le colombe.
Il percorso per la correzione da 0,2% di Pil delineato ieri al Senato dal ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan poggia su una serie di misure di massima già elaborate in questi giorni dai tecnici di Via XX Settembre. Il menu ha tre portate: misure sulle entrate e lotta all’evasione devono portare il 75% della correzione, mentre l’ultimo quarto è affidato ai tagli di spesa. Alle entrate, insomma, è assegnato il compito di coprire la fetta più importante dell’aggiustamento, con un conto da 2,55miliardi. Un miliardo, ha spiegato ieri Padoan, arriverà dall’estensione delle misure antievasione «che si sono mostrate già efficaci»: una definizione, questa, che porta a puntare l’attenzione sulle due forme di «inversione contabile» dell’Iva, vale a dire il reverse charge nel settore privato e lo split payment in quello pubblico. Tra le mosse allo studio, c’è l’applicazione del reverse charge a settori che oggi ne sono esclusi, dal commercio all’ingrosso di cereali agli orafi fino allagrande distribuzione. Lo split payment, invece, potrebbe uscire dai confini della Pa “classica” per abbracciare le società controllate da Stato ed enti territoriali. E’ lo stesso Padoan a spiegare però che gli interventi anti-evasione arriveranno sul finale dell’operazione anti-infrazione Ue, e che «molto probabilmente» saranno anticipati da altre misure. Quali? Le prime indiziate per assicurare il miliardo e mezzo che manca sul lato delle entrate sono le accise: quelle sui tabacchi possono produrre qualche centinaio di milioni, per cui il resto andrebbe chiesto con tutta probabilità ai carburanti.
Draghi: l’Europa diventi più unita. All’inizio di un anno in cui l’Europa vedrà con ogni probabilità l’ascesa di movimenti euroscettici nelle elezioni di diversi Paesi, il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, sollecita all’unità, «la chiave per la sicurezza del nostro continente, oggi come sempre». E respinge l’idea che l’uscita dall’euro possa offrire la soluzione dei problemi. In un discorso molto politico pronunciato a Lubiana, Draghi ha sostenuto che la strada da percorrere per l’unione «non è voltare le spalle a quello che ha funzionato, il nostro modello di apertura economica rafforzato dalla moneta unica, ma correggere gli errori che gli hanno impedito di funzionare come avrebbe dovuto». L’integrazione passa da«rispetto delle regole e riforme», ha affermato, ribadendo un tema sul quale insiste a ogni occasione. Per il presidente della Bce c’erano quattro cardini ineludibili a conoscenza di tutti affinché l’euro avesse successo, sono stati trascurati o addirittura rifiutati. Dopo l’entrata in vigore della moneta unica nel 1999, «sappiamo la storia che è seguita — ha sostenuto —. Il rallentamento delle riforme strutturali, l’annacquamento del Patto (di Stabilità, ndr), la fragilità dell’integrazione finanziaria e la sottostante divergenza tra Paesi che ne è risultata». Colpa dell’euro? No, dice Draghi. «Le autorità nazionali sapevano cosa dovevano fare: la valuta non poteva proteggerle dalle loro decisioni sulle politiche». Un atto d’accusa e un invito a cambiare marcia.