A un secolo e mezzo dall’annessione del Mezzogiorno al Piemonte, è possibile affermare che le leggi napoletane erano ottime. Non ci credete?
Nel 1852, l’imperatore francese Napoleone III inviò a Napoli una speciale commissione di giuristi e di alti funzionari, perché studiassero proprio la bontà di quelle leggi.
Nel 1902, lo storico inglese Bolton King (1860-1937) sostenne che «nessuno Stato in Italia poteva vantare istituzioni così progredite come quelle del Regno delle Due Sicilie»
Per professor Giuseppe Cicala «per far funzionare il Sud, basterebbe far funzionare bene ciò che ci hanno lasciato i Borbone: leggi e regolamenti compresi».
Lo Stato borbonico aveva delle leggi all’avanguardia in numerosi settori; in particolare, il sistema giudiziario meridionale è stato riconosciuto da molti studiosi come il più avanzato dell’Italia pre-unitaria, in linea con la grandissima scuola meridionale di diritto.
Sin dal 1774, era stato introdotto nell’impianto processuale napoletano l’istituto della Motivazione delle Sentenze, in linea con le teorie illuministe del giurista napoletano Gaetano Filangieri (1753-1788).
Quando la tortura giudiziaria vigeva ancora con tutta la sua ferocia nel cosiddetto liberale Piemonte, le leggi borboniche già da un pezzo l’avevano vietata.
Era stabilito, inoltre, che la corrispondenza privata non potesse venire in alcun modo manomessa.
Non era lecito imprigionare un povero debitore senza un giudizio di merito che ne avesse accertato la frode.