La tecnologia sta profondamente cambiando il nostro modo di essere. E di capire. Con effetti che devono essere controllati. Vediamo come.
Nel 1976 il linguista Tullio De Mauro, di recente scomparso, aveva fatto una ricerca per vedere quante parole conosceva un ginnasiale: il risultato, circa 1.600. Ripetuto il sondaggio venti anni dopo, il risultato fu che i ginnasiali del 1996 conoscevano dalle 600 alle 700 parole. Oggi io penso che se la caviamo con 500 parole, se non di meno. È un problema? SI, è un grosso problema, perchè, come ha evidenziato Heidegger, riusciamo a pensare limitatamente alle parole di cui disponiamo, perché non riusciamo
ad avere pensieri a cui non corrisponde una parola. Le parole non sono strumenti per esprimere il pensiero, al contrario sono condizioni per poter pensare.
Tutto ciò forse è dovuto al fotto che negli ultimi trentanni siamo passati a una fase dove le cose che sappiamo, dalle più elementari alle più complesse, non le dobbiamo necessariamente al fatto di averle lette da qualche pane, ma le abbiamo solo viste in televisione, al cinema, sullo schermo di un computer, oppure sentite.
Come ha ben descritto Raffaele Simone ne “La terza fase. Forme di sapere che stiamo perdendo, all’intelligenza più evoluta che è quella “sequenziale” stiamo sostituendo l’intelligenza “simultanea”, caratterizzata dalla capacità di trattare allo stesso tempo più informazioni, senza però essere in grado di stabilire una successione, una gerarchia e quindi un ordine. È l’intelligenza che usiamo per esempio quando guardiamo un quadro, dove è impossibile dire che cosa vada guardato prima e cosa dopo. L’intelligenza “sequenziale”, che usiamo per leggere, necessita invece di una successione rigorosa che articola e analizza i codici grafici disposti in linea. Se leggo “cane”, la forma grafica della parola e quella fonica non hanno niente a che fare con il cane, e allora la visione dei
codici alfabetici comporta un esercizio della mente che la visione per immagini non richiede.
Naturalmente “guardane” è più facile che “leggere”, per cui l’homo sapiens, capace di decodificare segni ed elaborare concetti astratti, è sul punto di essere soppiantato dall’homo videns, che non è portatore di un pensiero, ma fruitore di immagini, con conseguente impoverimento del capire, dovuto, come scrive Giovanni Sartori, all’incremento di tv e Internet.