Politica interna
Il biotestamento è legge: si può rinunciare a cure e nutrizione artificiale. Il sorriso di Mina Welby, le lacrime di Emma Bonino, i singhiozzi soffocati della compagna di Mario Monicelli, della figlia di Carlo Lizzani, dei genitori di Luca Coscioni, mentre dalla tribuna ospiti del Senato fissano – come non potessero crederci – un tabellone che dice: luce verde. Il testamento biologico è legge. Con 180 voti a favore, 71 contrari, 6 astenuti. «Ma questi numeri, chi se li aspettava questi numeri», esulta la vedova di Piergiorgio Welby mentre misura il tempo e la distanza di questo Parlamento, di questo Paese, da quello che undici anni fa negò i funerali in chiesa a suo marito. Poi si scioglie in un abbraccio con Silvia Giordano, la deputata M55 che ha lottato per la legge e che l’ha dedicata alla madre, malata di Sla e morta quasi un anno fa. In piedi ad applaudire dopo il sì, i senatori del Movimento si sono girati verso la tribuna in cui la deputata sedeva col marito Matteo Mantero, primo firmatario del ddl che mette insieme la loro proposta e quelle del Pd: un tributo, perché è grazie a loro che i 5 stelle possono dire di essere stati determinanti, insieme ai voti di Pd, Sinistra e Ala, per quella che definiscono «una legge di civiltà». Ed è qui che i cattolici perdono compattezza. Il direttore dell’ufficio Cei per la Pastorale della Salute, don Massimo Angelelli, pone l’altolà: «Non ci riconosciamo nella legge. Tutela i medici sollevandoli da responsabilità e le strutture pubbliche. E carica la scelta sui malati senza pensare ai sofferenti». La Cei distingue: «Se un paziente dovesse chiedere di interromperle negli ospedali cattolici non si procederà». A favore i medici cattolici di Milano: «La mediazione trovata in Parlamento risponde in più parti al nostro documento». Ma il presidente dell’associazione nazionale Filippo Boscia prende le distanze: «Sono una minoranza. È incrinato il principio dell’indisponibilità della vita laicamente inteso».
Nel Pd cresce la fronda su Boschi. Ma il segretario la ricandiderà. Non c’è solo un partito insofferente verso colei che, nei capannelli, viene considerata in questa fase più un peso che una risorsa per il Pd. Non c’è solo il Pd con cui deve vedersela il leader, ora che le minoranze tacciono imbarazzate e che anche tra i renziani cresce la tensione per un problema che può azzoppare una già difficile campagna elettorale. «Al momento è ipotizzabile una flessione di almeno due punti percentuali, fino a un milione di voti in meno, anche solo sommando tutte le persone coinvolte nel caos sulle banche», sentenzia il sondaggista Alessandro Amadori: convinto che «con la bomba Vegas-Etruria-Boschi, Renzi potrebbe scendere pericolosamente verso quota 20 per cento». Nessuno della minoranza Dem ne chiede le dimissioni, «altrimenti diventerebbe un’oggettiva ammissione di colpa», dicono gli uomini di Orlando. E se ad augurarsi che non sia ricandidata magari sono in molti, Renzi comunque la blinda. Il segretario, con cui lei ieri ha concordato ogni cosa fino alla scelta di andare dalla Gruber con Travaglio, non dubita di ricandidarla: il seggio per lei è sicuro, considerata la più affidabile tra i suoi insieme a Luca Lotti. Ma se la Boschi mai come ora è l’anello debole del Pd, il timore è che lo possa diventare ancor di più dopo l’audizione di Ghizzoni del 20 dicembre prossimo. Maria Elena Boschi, dal canto suo conferma: «Non ho intenzione di dimettermi sulla base di bugie dette da altri. Sono due anni che ripetono che ho mentito in Parlamento, ma non è vero. Si cerca, attaccando me, di mettere in discussione un intero progetto politico. Il Pd è più forte delle loro bugie. La scelta spetta al Pd, come per tutti. Mi piacerebbeche il Pd mi candidasse in Toscana, ma deciderà il partito».
Politica estera
Ue avanti sulla difesa comune ma sui migranti è scontro. Merkel con l’Italia. Nel Consiglio dei 28 capi di Stato e di governo dell’Ue è stata di nuovo bloccata la proposta italiana di quote obbligatorie di ripartizione dei rifugiati e di riforma del Trattato di Dublino, che ora assegna i profughi al Paese di primo arrivo penalizzando principalmente Italia, Grecia e Spagna. I capi di governo dell’Est del gruppo di Visegrad, l’ungherese Viktor Orban, lo slovacco Robert Fico, il polacco Mateusz Morawiecki, e il ceco Andrej Babis, appoggiati informalmente da vari Stati del Nord, hanno mantenuto la loro netta opposizione in un incontro con il premier Paolo Gentiloni prima del summit a Bruxelles. I quattro di Visegrad ieri hanno versato 36 milioni al Trust Fund Ue per l’Africa, soldi che finanzieranno i progetti italiani in Libia. Un tentativo per non fare la parte dei cattivi mentre frenano la solidarietà interna sui rifugiati. Ma Gentiloni è chiaro: «Per noi i muri e le chiusure sono sbagliate, le quote obbligatorie sono il minimo sindacale per l’Unione». Sul fronte italiano anche Angela Merkel: «La solidarietà selettiva non è positiva, non basta quella sulla dimensione esterna, serve anche quella interna». La cancelliera non ha risparmiato critiche al presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, che ha abbandonato la neutralità imposta dal molo schierandosi con Visegrad. Così la cena sui migranti è stata lunga e occasione di scontro. A nome dell’Europarlamento, Antonio Tajani ha proposto di mettere nell’angolo i paesi dell’Est facendo passare la riforma con «voto a maggioranza qualificata» dei ministri dell’Interno.
L’effetto #MeToo sul voto e su Trump. È il momento politico delle donne. Il voto dell’Alabama ha cristallizzato in numeri l’onda liquida del movimento «MeToo». Secondo gli exit poll, il 57% del voto femminile ha scelto il democratico Doug Jones, l’avversario di Roy Moore, il candidato repubblicano, appoggiato da Donald Trump e super favorito prima di essere sommerso dalle accuse di molestie sessuali. Unanime la scelta delle afroamericane: 98% per Jones, solo il 2% per Moore. Sorprendente quella delle bianche: 34% per il democratico; 63% per il repubblicano. Da tutte queste cifre arriva un messaggio molto nitido per Trump: anche nello Stato più conservatore, più repubblicano del Paese aumentano le donne infastidite, deluse o disgustate dagli abusi sessuali degli uomini in posizioni di potere. È un elemento politico trasversale alle razze, alle classi sociali, ai gradi di istruzione. Ed è un avvertimento diretto a questo presidente che nel 2016 era arrivato alla Casa Bianca anche grazie al consenso del 53% delle donne bianche. Nel mondo femminile americano è scattato qualcosa. Come dimostra la spinta potente verso la condivisione pubblica: le centinaia di migliaia di tweet dopo il caso Weinstein, il produttore-predatore di Hollywood. L’attrazione per l’impegno diretto in politica è diventata più forte. Tuttavia, il magazine americano ha scelto per il suo personaggio dell’anno, le “silence breakers”, le donne del movimento #metoo, che hanno rotto il silenzio sulle molestie sessuali. Ma con uno scivolone, che ha scatenato la rabbia della comunità afroamericana. La vera fondatrice del movimento (Girls for gender equity) nato nel 2006, e dello slogan “metoo’, è Tarana Burke: cinque righe all’interno dell’articolo. La domanda di tutti era: “Ma in tutto questo, dov’è Burke?”».
Economia e Finanza
Draghi: più fiducia sulla crescita ma rimane la necessità del «Qe». Una netta revisione al rialzo delle previsioni di crescita per l’Eurozona non ha modificato la convinzione del consiglio della Banca centrale europea che una «ampia dose di stimolo monetario» sia ancora necessaria. Anche perché, se le previsioni di inflazione sono state a loro volta ritoccate e indicano, per la prima volta, che nel 2020 questa arriverà all’1,7%, l’obiettivo di stare «sotto ma vicino al 2%» non può considerarsi ancora raggiunto. Il presidente, Mario Draghi, nell’abituale conferenza stampa seguita alla riunione di consiglio, ha ricordato che, se la revisione delle stime sul futuro dell’economia va «nella giusta direzione», il mandato della Bce è la stabilità dei prezzi, non la crescita o l’occupazione, che pure sta migliorando. Secondo Draghi è ancora necessaria «un ‘ampia dose di stimolo monetario» e si è detto oggi «più fiducioso» della convergenza dell’inflazione, ma ha affermato che il consiglio non concorda con l’opinione del governatore della Banca d’Olanda, Klaas Knot, secondo cui il programma di acquisti di titoli, il Qe «ha fatto il suo corso». «Se dovessimo alzare i tassi sarebbe in fondo una buona notizia. Vorrebbe dire che siamo su un percorso di inflazione che si sostiene da sola». Draghi, che ha iniziato il suo mandato tagliando i tassi due volte in rapida successione, torna su un tema che è diventato ormai da tempo un suo cavallo di battaglia: i salari. «Rispetto alle riprese del passato, la risposta dei salari rimane molto, molto più bassa». E questo non dà ai consumi lo sprint necessario per rafforzare la crescita e risollevare l’inflazione, vero obiettivo delle autorità monetarie
Derivati «di Stato» per migliorare i conti ma il deficit-Pil alla fine è aumentato. Dal 2006 al 2016 hanno pesato sul deficit pubblico per quasi 24 miliardi di euro. Hanno attualmente un valore di mercato negativo di 31,8 miliardi. Di fatto hanno annullato per i conti pubblici italiani i benefici, in termini di risparmi in interessi, della politica monetaria della Bce. E oggi sono sotto accusa anche dalla Corte dei Conti. Di fronte a questo bollettino, viene da chiedersi come mai la Repubblica Italiana abbia stipulato nel corso degli ultimi 20 anni con le banche internazionali contratti derivati che si sono rivelati così gravosi sui conti pubblici. Il Sole 24 Ore, andando nel profondo dei dati Eurostat e confrontandosi con numerosi esperti, è in grado di dare una risposta i derivati sono serviti per anni per “aggiustare” di qualche zero virgola il rapporto tra deficit e Pil. Ora ne paghiamo il conto con un aggravio sullo stesso deficit. Che costringe il Paese a misure fiscali più austere di quanto sarebbe necessario senza derivati. “Le scelte sui derivati sono state «prudenziali» e «ispirate alle migliori policy internazionali». I loro effetti costosi sul bilancio pubblico sono stati determinati da uno «sconvolgimento dei tassi» che «nessuna previsione poteva immaginare» e che ha portato l’Italia a un passo dal default.” Poggiano su questi due pilastri le contro deduzioni espresse ieri in commissione banche da Maria Cannata, dirigente generale del debito pubblico al Tesoro.
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