Il clima politico che respiriamo in queste settimane è sempre più improntato al nervosismo. Siamo in una condizione di campagna elettorale permanente, che continua da più di un anno, cioè da quando è cominciata la contesa referendaria. Lo scontro continuo tra Pd e Movimento 5 Stelle, che sta passando alle aule dei tribunali, insieme a una certa fibrillazione nei rapporti tra Pd (o meglio, la componente renziana) e governo Gentiloni relativamente al conti, alla manovra e ad alcune scelte strategiche, con critiche più o meno sottotraccia ai due principali ministri tecnici, Padoan e Calenda, danno la misura del clima. I rischi connessi alla gestione di una manovra presumibilmente imponente nell’autunno acuiscono la tensione. Nel centrodestra le manovre di posizionamento sono ancora all’inizio. Di certo c’è una ritrovata centralità di Berlusconi che si è sapientemente ripreso la scena. Da un lato cavalcando gli evergreen, tasse, pensioni, riduzione del peso dello Stato. Per quanto meno efficaci di un tempo, sono argomenti cui l’elettorato presta indubbia attenzione. Tuttavia, rispetto allo scenario che abbiamo presentato poco meno di un mese fa, alcuni cambiamenti emergono. Cominciamo da sinistra: la scissione ha avuto un impatto contenuto. Un mese fa, a poche settimane dall’avvenimento, il Movimento democratico e progressista era accreditato del 3,3%. Oggi ha perso poco meno di un punto, collocandosi al 2,6%. Il centrodestra si mantiene molto competitivo. La somma dei tre partiti supera il 30 per cento, anche se è un fatto teorico in assenza di un programma e di una leadership condivise.