Addio a Stefano Rodotà. Quando tra gli italiani il computer si chiamava ancora cervello elettronico, gli venne di fatto affidato dal Partito comunista italiano una sorta di mandato non ufficiale a dare la linea in materia. Non aveva la tessera del Pci, era deputato dal 1979 di quella famiglia in parte laica e in parte intransigente per vocazione che aveva il nome di Sinistra indipendente, aveva scritto nel 1973 per «il Mulino» un testo intitolato «Elaboratori elettronici e controllo sociale». Sarà stata metà degli anni Ottanta e fece scattare in alcuni dirigenti di Botteghe Oscure una sorta di riflesso condizionato: sa più di noi sull’argomento, ci dirà se l’informatica pone problemi per la libertà e in quale misura apre nuove strade.
Ma Stefano Rodotà, nato a Cosenza, morto ieri a 84 anni, padre di Maria Laura, confinava con quel mondo senza rientrare in quel genere di intellettuali. Si può dire che è sempre stato dalla parte di quelli che non avevano diritti, o ne avevano pochi, gli immigrati per esempio (lo ius soli è stata una delle sue ultime battaglie), ma non solo loro. Sia come giurista, costituzionalista era la sua «professione» principale, sia come politico, mestiere che cominciò nel 1979 ufficialmente quando fu eletto alla Camera come indipendente nelle liste del Pci di Enrico Berlinguer. All’epoca faceva coppia con un altro giurista Franco Bassanini, spesso e volentieri le battaglie le facevano insieme.
Sono passati quasi 40 anni da quando Rodotà è entrato in politica, senza tuttavia smettere mai di fare il suo mestiere fondamentale, quello appunto di costituzionalista. È stato capace durante tutto questo tempo, di amalgamare politica e diritto, anzi diritti, tenendoli insieme in una produzione enorme di libri, articoli di giornale (scriveva soprattutto su Repubblica e ogni tanto, sul Manifesto), interviste e interventi in convegni, congressi e ovviamente in Parlamento fino a quando c’è stato.